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L’amore in tempo di guerra. I mass media e la crisi del 2012

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Questo pezzo è uscito su Link. Idee per la televisione N12 – Insert coin/Game over. Puoi scaricare gratuitamente Link 12 per iPad qui. 

di Violetta Bellocchio

Accendere la tv, sfogliare una rivista, navigare in rete. Tutte azioni che ci consentono di sfuggire, almeno per un po’, alla lugubre atmosfera che ci circonda. Ma che in fondo ci riportano alla crisi, che sia per informarci sui suoi sviluppi o per farci ridere – amaramente – di essa. Tra frasi a effetto svuotate di senso e Sara Tommasi, la paura fa notizia.

Fatto: la realtà è contraddittoria, difficile da raccontare in 90’’.

Cronaca: alla realtà viene sovrapposto un frame narrativo, che nasconde le difficoltà, trasforma le contraddizioni in “normali” punti di svolta all’interno di una struttura a tre atti, e in generale si assume il compito di spiegare l’inspiegabile.

Se ci mettiamo davanti a tv, quotidiani e testate web per come le conosciamo oggi, una delle tecniche usate più spesso è la personalizzazione della tragedia; un disastro di finzione si racconta tramite eroi a cui affezionarsi – cani, bambini malati, secchioni di buon cuore, Morgan Freeman –, in una cronaca si tende a premiare lo human interest story, la “storia di interesse umano”. Un riempitivo a lieto fine. Il terremoto in Giappone del 2011 aveva avuto Sumi e Jin Abe, nonna e nipote rimasti intrappolati sotto le macerie della loro casa ma sopravvissuti nove giorni, fino all’arrivo dei soccorritori. Servivano a uno scopo preciso, loro due. Permettevano di tirare il fiato in uno scenario terribile. Tra maggio e settembre 2012, i media italiani stabiliscono l’angoscia come unica chiave narrativa adatta al momento.

Qualcuno potrebbe vedere in noi l’esempio estremo della cultura della paura: la combinazione tra scarsa informazione (“siamo in crisi, nessuno sa perché!”) e allarmi sempre più generali (“siamo tutti condannati!”) rientra in una strategia dell’ansia da manuale, volta a non contenere il panico, anzi, ma seminarlo anche dove non ci sarebbe. (In breve: “Noi siamo i prossimi. Tu sei il prossimo”). Ma potrebbe essere tutto molto più semplice: non ci sono i soldi per raccontare meglio questo orrore.

Il timecode del baratro

Tra giugno e luglio 2012 il varietà The Daily Show manda in onda The Correspondents Explain, una serie di video dedicati all’economia con protagonisti alcuni volti noti del programma, sulla scia di un progetto simile in cui gli stessi volti “spiegavano” il bipartitismo. In uno di questi video, Recession & Depression, datato 10 giugno, Wyatt Cenac riassume così la differenza tra i due stati: “non importa che termine usate, vuol dire niente soldi. Probabile che non ne avrete per un bel po’”. (Seguono immagini di conigli in pentola, mentre Samantha Bee chiosa: “dovrete mangiare gli animali domestici dei vostri figli”). D’estate il Daily Show capitalizza il proprio successo; sa di poter contare su un pubblico fedele, che segue con affetto il programma. Però nessuno degli autori è convinto di stare sganciando scomode verità sugli spettatori ingenui, e nessuno cerca di cavarsela con qualche battutina; la nostra impreparazione è solo messa in evidenza dalla superficialità con cui i finti esperti sparano giudizi apocalittici.

Intanto, all’interno di uno show ancora più comico, Stephen Colbert intervista il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, e gli chiede: “ovviamente l’America esce da una grande depressione quando scoppia la guerra in Europa… noi ne otterremo una?”. Il Daily Show e il Colbert Report non staccano mai. Le trasmissioni continuano, pioggia o sole; al massimo si salta qualche giorno. L’attualità resta in primissimo piano.

La satira italiana, durante l’estate 2012, è in vacanza. (Oppure osserva l’orizzonte degli eventi da dietro una tapparella, tenendosi in serbo le pallottole per i mesi di maggiore rilevanza). La sensazione di chiuso per aver finito i soldi aleggia ovunque. La tv va avanti a repliche, fondi di magazzino; si sfrutta quello che già c’è, e ovunque ti giri trovi filmini-blob di vecchi varietà, vecchie scenette, numeri musicali di star del passato. Tutto bellissimo, però che in un momento simile, alle otto e mezza di sera, come unico stacco dai tg venga proposto il geghegé non fa molto per mettere in quarantena lo spaesamento del cittadino medio.

Allo stesso modo, negli spazi dedicati all’informazione trionfa una vecchia tecnica: la ripetizione ossessiva di una singola parola che non spiega nulla. Stavolta di cose se ne ripetono due: la parola spread, e la frase “oggi è un giorno decisivo per le sorti dell’euro”. È un meccanismo paragonabile alla soap-operizzazione della politica, per cui di base non deve mai succedere niente, e si deve andare avanti a chiacchiere, finte conversazioni dove si resta sempre al punto di prima. Quando anche i talk show staccano la spina, ci resta solo uno spazio vuoto, un feedback loop di nulla che peggiora ogni minuto. Spread. Oggi è un giorno decisivo per le sorti dell’euro.

Un singolo aspetto della crisi, però, è ritenuto degno di contributi filmati ex novo. Il crollo dei consumi. I servizi sui saldi dell’estate 2012 – ovviamente anticipati e ferocissimi, pur di limitare le pile dei resi – sembrano una passeggiata in un lebbrosario. La gente non compra più. Gli italiani sono poveri. Si eseguono carrellate su negozi vuoti e scaffali pieni, si passano microfoni a esercenti distrutti. Viene occasionalmente data la colpa ai cinesi. Si ripete un punto fermo: gli italiani, un giorno della passata primavera, si sono svegliati poveri. Oppure, gli italiani riscoprono la povertà. Là dove forse sarebbe cascato meglio “gli italiani danno nuove forme alla loro vecchia povertà”. Spread.

In primavera, davanti a un evento reale, la crisi della Grecia, veniva raccontato tutto quanto con la stessa frenesia delle ultime ore di papa Giovanni Paolo II (“fermi tutti, non è ancora morto!”) e con un messaggio esplicito: noi siamo i prossimi, Atene è insalvabile. Però esisteva l’azione; esisteva qualche novità da riportare, per giustificare il crescendo di tensione. Ecco la lettera del pensionato suicida Dimitris Christoulas, ecco il passaggio censurato: “vista la mia età avanzata, non ho modo di reagire in modo attivo – ma se un mio concittadino greco afferrasse un kalashnikov, sarei pronto a stare al suo fianco”. Ecco il Partenone sotto assalto, ed ecco la domanda: siamo noi i prossimi, oppure volesse Iddio tocca prima alla Spagna? 

Dopo tre mesi di nulla infilzato sui giorni decisivi per le sorti dell’Euro, la risposta sarebbe scendere in strada a bruciare macchine a caso. Non lo fa nessuno. O quasi.

La cronaca nera

I primi mesi del 2012 sono occupati dal boom dei suicidi. Un’epidemia che colpirebbe quasi soltanto uomini – pensionati come Christoulas o più giovani padri di famiglia – e che, secondo alcune indagini, andrebbe ridimensionata; secondo altri, si tratterebbe proprio di una “tendenza” creata ad arte, sulla base di pochi dati interpretati molto male. Un boom fatto nascere, non raccontato. Più consistenza avrebbero i gesti dimostrativi, dove gli uomini si asserragliano in banche e istituti di credito, minacciando di darsi fuoco, di tagliarsi le vene, di fare del male a se stessi e agli altri. (Frasi chiave: Non ho più credito; non ho più niente. Devo parlare. Fatemi parlare con qualcuno.) E i media italiani danno enorme spazio a questi incidenti – quando accadono in altri paesi, e finiscono col sangue; la storia dell’impiegato assassino Jeffrey Johnson, a New York, è per i tg nazionali una delle notizie del giorno, proprio come la strage di Denver.

Guardiamo all’estero perché da noi questioni simili si risolvono con l’intervento delle forze dell’ordine, prima che il responsabile di un potenziale gesto insano arrivi a togliersi la vita. Allora le notizie restano lanci, trafiletti. Da “Crisi: ha problemi con banca, uomo si suicida nel bolognese” si passa ad “Avellino, minaccia di darsi fuoco in banca”. Tutto a posto.

Quello che aumenta, sui media, sono i reati contro il patrimonio. E quello che arriva, di nuovo, sono le rapine ai videopoker. L’Italia è al sesto posto mondiale per volume del gioco d’azzardo – un settore che, in totale contro-tendenza, non presenta segni di crisi, e che non viene ostacolato in alcun modo. Il grosso di questo gioco si svolge in pubblico, a viso aperto; il denaro arriva dai videopoker sistemati in ogni bar, edicola, tabaccheria del paese. E ogni esercizio che ospita un videopoker ha bisogno di un cambiamonete, a volte incassato nelle pareti del locale, a volte no.

A luglio cominciano gli assalti ai cambiamonete. Furti con scasso, realizzati in piena notte, questi sì molto ripresi dalla stampa, soprattutto locale. Anche se manca il morto. I responsabili, mai arrestati né identificati, puntano a esercizi commerciali più o meno isolati, ma sempre dopo l’orario di chiusura; si lasciano dietro vetri rotti, serrande scassate, muri abbattuti e sbarre divelte dagli ingressi sul retro (belle foto, molto d’impatto), ma rispetto ad altri mini-boom del passato recente, come le rapine in villa effettuate da bande di rumeni, non si possono registrare feriti, stupri, ostaggi. I danni materiali toccano alle imprese che gestiscono i videopoker, e ai padroni dei singoli locali, che però trattengono solo una parte minima del ricavato – intorno al 5%, di solito. Sono danni, sì, ma non certo impressionanti come il fallout di una rapina in banca.

Cosa succede? È il gesto stesso a essere degno di monitoraggio, da parte di una cronaca che nell’estate 2012 decide di mettere questi furti in prima pagina, in tutto il paese, in una quasi assoluta mancanza di giudizio morale. Nessuno viene invitato a giocare meno, ma nessun criminale viene spacciato per Robin Hood. Spaccare pareti e sfondare vetri è una cosa che si fa, e basta. Gotham può essere serenamente ridotta in cenere. E ora, passiamo alla pornografia.

Lo sdegno

Tipico di ogni crisi è il piacere di vedere trascinato in rovina chi “non si merita” il proprio privilegio, il benessere esistenziale e materiale raggiunto: un nemico frequente, in Italia, sono i parlamentari, bersagli di proposte referendarie non troppo elaborate quando non di iniziative politico-virali destinate a non uscire mai dalle catene di Sant’Antonio. Lo stesso. L’importante è che il ricco perda tutto, riceva una punizione esemplare. Non perché tu possa così trionfare su di lui, ma perché tu possa vederlo rotolarsi nella stessa polvere, a pochi metri da te. Negli Stati Uniti era cominciata nel 2009, quando la crisi dei mutui, oltre a gettare famiglie medie sul lastrico, aveva tagliato il bilancio ai figli dei ricchi, costretti a lasciare gli stage non pagati e le zone boho chic delle grandi città perché i genitori non potevano più mantenerli a quel tenore di vita. Nessuno piangeva per loro, molti dicevano “ben gli sta, finalmente un po’ di giustizia”.

In Italia, nel 2012, c’è Sara Tommasi. Per parlare di lei nella realtà servirebbero tempo e fatica. (Un tentativo di riassunto? “Ex modella e personaggio televisivo la cui fortuna, secondo alcuni, si sarebbe compromessa nel 2011, con la pubblicazione sul Corriere del Mezzogiorno degli sms che lei aveva spedito a Silvio Berlusconi, e che oscillavano da “mi hai fatto ammalare… paga i conti dello psicologo” a “ti amo ancora”). Alla cronaca basta una frase: ragazza ricca, caduta in basso.

La caduta, qui, è preparata da una serie di iniziative personali, tutte ben documentate. C’è l’adesione al movimento di Scilipoti contro il signoraggio bancario, ci sono i video dove lei si toglie i vestiti, commentando “lo faccio solo perché si parli di questo grave problema”; poi ci sono gli striptease integrali per le strade di Roma, e le foto di lei che si struscia contro un Bancomat. Una scena che Robocop, con il suo “lo compro per un dollaro!”, se la sognava di notte.

A giugno Sara Tommasi interpreta un film pornografico. Sara contro tutti, poi rettificato in La mia prima volta. Resterà la notizia dell’estate. Non perché si tratti di un porno ben realizzato, o perché la modella sia la prima personalità pubblica ad accostarsi al genere. No. Quello che fa centro è la punizione della celebrità. Anche chi non visiona il film al completo non può non vedere gli screenshot degli occhi sbarrati della Tommasi, che per mesi vengono ripresi da stampa e tv nazionali; anche chi è disposto a lasciarsi trasportare non può ignorare che nel prodotto finito Tommasi scandisce “sono una zoccola” con l’aria di chi vorrebbe essere in qualsiasi altro posto. Con l’aria di non essere stata preparata affatto, da nessuno, alla prestazione lavorativa che sta svolgendo davanti alla videocamera. Lei si sta abbassando per questioni di sopravvivenza, non per desiderio di apparire o ambizioni più alte.

Sara Tommasi realizza quindi il finale di Requiem for a Dream a beneficio di chiunque abbia dimestichezza con le edicole, una buona connessione o un abbonamento a Sky.

Di fronte all’angoscia trasmessa dal film, alcuni parlano di circonvenzione di incapace, attribuiscono alla protagonista dolori segreti che spaziano dall’abuso di cocaina al disagio psichiatrico. Diversa luce, mediaticamente, hanno altre delle sue disavventure. Ecco Sara Tommasi che spazza il pavimento in un ristorante di Riccione, su richiesta di un utente YouTube; ecco Sara Tommasi che afferma “ho avuto un contatto con entità aliene, mi hanno impiantato un microchip nel cervello”, eccola in discoteca mentre i presenti intonano “sono tutte puttane”, ed eccola pellegrina a Medjugorje insieme alla madre. Se chiudi qui, hai anche il lieto fine. Una specie.

La punizione della celebrità, in Italia, è quello che passa per una storia di interesse umano. La ragazza ricca compie ogni attività considerata “degradante”, dalla doppia penetrazione alle pulizie. Diventa solo un’altra stagista impacciata, in una realtà-azienda che continuerà a esistere per molti anni, quando lei se ne sarà andata.


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